Una storia che ha dell’incredibile: tramite il nostro MODULO abbiamo ricevuto la testimonianza. Arianna ha lasciato il suo lavoro a Londra per andare a vivere in Malawi in mezzo all’Africa più povera…con un biglietto di sola andata.
Nome e Cognome
Arianna Meschia
Nazione di residenza
Malawi
Perché ti sei trasferito/a? Raccontaci il tuo inizio
La mia storia comincia in realtà molto prima del trasferimento in Malawi. A 18 ho lasciato la mia natia Genova per studiare Film e Scrittura Creativa a Londra, dove ho poi lavorato per cinque anni nell’ambito della produzione film.
A Londra mi sono trasformata da una timida ma intrepida diciottenne, in studentessa impegnatissima ventenne, poi lavoratrice accanita di ventiquattro anni e infine produttrice stressata e fondamentalmente insoddisfatta di ventisei.
Per quanto non avrei mai creduto fosse possibile, mi ero stufata di Londra, mi stava stretta. O forse ero io che ero cresciuta ed ero diventata troppo larga per lei. Ero stufa di buttare £750 al mese nell’affitto di una stanza di due metri per tre, stufa dello stress lavorativo e incerta di cos’altro avrei potuto fare. Stufa del trantran giornaliero, e incredula che la mia vita potesse esaurirsi solo così. Volevo fare qualcosa di immediatamente utile e i cui risultati fossero visibili subito. Volevo riscoprire il gusto di una vita semplice, vissuta in comunità invece che ognuno per sé senza sapere il nome del proprio vicino o a mala pena rivolgendo lo sguardo a chi ti sta affianco sull’autobus.
E così ho deciso dopo tormentati mesi di dibattiti interni di tornare in Malawi dove ero stata in vacanza nel 2015. Lì avevo conosciuto un bellissimo progetto, una scuola in una zona rurale, fondata per adempiere al bisogno dell’educazione secondaria che in quell’area era pressoché inesistente.
Ho fatto un biglietto di sola andata, dato le dimissioni, venduto o dato via la maggior parte di ciò che avevo e il 5 gennaio 2018 sono atterrata in Malawi per cominciare un nuovo capitolo.
L’intenzione era di stare tre mesi e poi andare a viaggiare. Sono rimasta 14 mesi.
I primi tempi sono stati strani, ma non necessariamente difficili. Ero già stata in zone rurali del Malawi, del Kenya e dell’Uganda, quindi sapevo cosa mi aspettava, perlomeno visivamente. Sapevo che sarei stata in una casa di mattoni con tetto di alluminio corrugato, senza acqua corrente né elettricità, con una famiglia locale che parlava pochissimo inglese.
Quello a cui non ero preparata invece era l’enorme empatia, l’ospitalità, l’apertura mentale e la voglia di accogliere il prossimo di una comunità che sopravvive giorno per giorno di agricoltura di sussistenza e nient’altro.
Il fatto che persone che hanno poco o niente per sé stesse fossero pronte a condividerlo con me mi ha riempito di umiltà, oltre ad aprirmi ulteriormente gli occhi alla molteplicità delle condizioni di vita in questo pazzesco mondo. Dopo sei mesi, ho davvero lasciato una famiglia – la bimba più grande, seppure undicenne, ha voluto dormire nel mio letto l’ultima notte perché non riusciva a smettere di piangere!
Insegnare a scuola è stato meraviglioso: i ragazzi avevano una voglia di imparare e un entusiasmo davvero contagiosi, che non ricordo in tanti dei miei compagni a scuola in Italia. Il fatto che la maggior parte di loro si alzi alle quattro e mezza o cinque, faccia varie faccende di casa, cammini almeno tre quarti d’ora per arrivare a scuola, e poi si sieda ancora al banco e riesca a incamerare qualcosa, ha dell’incredibile!
La vita di villaggio mi è piaciuta subito.
Ogni giorno tornavo a casa verso le tre dopo scuola, e passavo il pomeriggio a fare i compiti con alcuni dei ragazzi che vivevano nella stessa famiglia, a giocare con i più piccolini, a provare ad aiutare con le faccende (incluso prendere l’acqua al pozzo, tagliare la legna e aizzare il fuoco per cucinare la cena), spesso facendo danni!
La sera poi si mangiava presto, appena cala il sole verso le sei e trenta, poi una partita a carte o un po’ di lettura con i bambini, e a letto presto, visto che la sveglia era all’alba, grazie al gallo, e ai rumori del villaggio che si risveglia…
Il costo della vita è relativamente basso, specialmente se si ha un vero a proprio lavoro (io ero solo volontaria). Gli affitti per una piccola casa (cucina, bagno, due o tre camere da letto, salotto) non superano i €150, spesso con bollette incluse.
Frutta e verdura sono economicissime al mercato, ma alcuni generi alimentari importati (per esempio Nutella, olio, cioccolato vario) costano parecchio, a volte anche più che in Italia.
Mangiare fuori può essere molto economico se si sceglie cibo locale (€2 a pasto), ma diventa un po’ più caro per il cibo internazionale (per esempio una pizza si aggira sui €5-8 a seconda dei posti).
Da dove cominciare? Se parliamo del Malawi rurale, chiaramente le differenze sono abissali. Ben 80% della popolazione vive in zone rurali e sopravvive con la sola agricoltura di sussistenza, al massimo vendendo quel poco che resta del raccolto dopo aver soddisfatto le esigenze familiari. Nei villaggi non c’è acqua corrente, né elettricità, ma fortunatamente quasi tutti oggi possono permettersi un piccolo pannello solare per fare luce la sera. Ci sono piccoli negozi di prime necessità, ovviamente moltissimi mercati di frutta e verdura, e qualche “locale”.
Nelle città la situazione è chiaramente diversa. Le strade sono asfaltate e la pianificazione urbanistica non è delle peggiori. Le abitazioni sono in muratura e per la gran parte hanno acqua corrente ed elettricità (a parte i frequenti black out!). Tuttavia anche la capitale Lilongwe, non è tanto sviluppata quanto altre capitali africane: per esempio ci sono solo una manciata di palazzi oltre i due o tre piani, il contrasto tra le (seppur non molto estese) bidonville e le aree più affluenti è molto evidente, e i trasporti pubblici sono pressoché inesistenti, se non per i minibus privati che scorrazzano per la città portando ben più dei sedici passeggeri che dovrebbero da regolamento!
Parlando di trasporti, non è strano ritrovarsi schiacciati sul minibus tra una mamma col suo bambino sulla schiena, un signore in completo che sta andando in ufficio, e ai piedi un pollo che cerca disperatamente di scampare la mala sorte che gli è capitata quando è stato comprato al mercato.
Le strade che collegano le città principali attraversando chilometri e chilometri di campagna sono più o meno asfaltate, ma anche costantemente attraversate da mucche, capre, polli, e ovviamente persone, visto che spesso i villaggi e i piccoli centri di mercato si trovano proprio al ciglio della strada.
E tutta via, nonostante il Malawi possa sembrare un mondo completamente a parte, non è poi così difficile trovare una pizza più che decente, a Blantyre da Caffè Grazia, a Mulanje da Africa Wild Truck e a Zomba da Casa Rossa!
Visto che avevo già vissuto fuori dall’Italia, non ho sentito tanto la mancanza dell'”italianità” di per sé – il cibo per esempio non mi è mai mancato – tanto quanto la mancanza dei miei amici e della mia famiglia. Fortunatamente WhatsApp aiuta! Un’altra cosa che di cui ho sentito spesso la mancanza è stata la cultura: andare al cinema, a teatro, visitare un museo, ascoltare musica dal vivo. In città quali Lilongwe e Blantyre ci sono queste opportunità, ma nel villaggio ero abbastanza tagliata fuori!
A quale categoria di italiani consiglieresti la tua destinazione?
Senza dubbio consiglierei di visitare il Malawi a tutti, da 0 a 99 anni! Ci sono una varietà di itinerari e posti da visitare per soddisfare le esigenze di qualsiasi viaggiatore.
A ragazzi giovani consiglio anche di fare un’esperienza di volontariato, e a tale proposito consiglio Chimbota Secondary School Project (dove ho insegnato io, https://www.facebook.com/ChimbotaPrivateSecondarySchool/) e Around AWT (aroundawt.com), una piccola associazione senza scopo di lucro con la quale ho collaborato durante la mia permanenza in Malawi.
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