Islam: “All’inizio, quando ero lontano dalla strada di Allah ho avuto anche diverse ‘morose’. Ne cambiavo tante. Ma ora ho capito perché Dio chiede alla donna di coprirsi. La donna è come una banana: se gli togli la buccia, dopo due giorni diventa marcia”. Impura, insomma.
Con queste parole un giovane ragazzo della comunità islamica radicale in Italia, Tabligh Eddawa.
L’immagine sembrerà banale, ma non lo è. E spiega perfettamente questa fetta dell’islamico pensiero: le femmine che si mettono in mostra si sviliscono, perdono la loro verginità visiva. Una moglie, infatti, deve farsi bella solo per suo marito. In casa e mai in pubblico. “Voi pensate che la vera libertà sia quella della mingonna. Ma vi sbagliate: questa è la libertà degli animali”, mi ammonì l’imam della comunità Tabligh quando provai a eccepire che in fondo ognuno è libero di indossare ciò che gli pare.
Allora viene da chiedersi: si può definire “scelta autonoma” quella di una ragazza il cui un uomo (marito, padre o figlio che sia) la mette nelle condizioni di sentirti impura se non indossa un hijab?
Il vero problema è che a dividere la concezione occidentale della donna da buona parte di quella islamica, non sono piccole differenze. Ma un enorme cratere. Cambia lo status sociale, le sue libertà, i suoi limiti di azione e i suoi diritti. Il ruolo della musulmana è quello di moglie e madre, nata per “costruire l’uomo di domani”. E poco altro. Può lavorare, certo, ma solo se non “toglie amore al bambino” e comunque esclusivamente nei casi in cui il marito non riesca a portare a casa la pagnotta.
Ecco dove il velo islamico si discosta da quello delle suore cristiane. Il primo sovente si inserisce in un brodo sociale che lo rende in qualche modo una imposizione. Fisica o sociale poco importa. Nella famiglia islamica la sfera intima deve rimanere tale, è essenziale che la donna non non crei scandalo e non diventi soggetto (troppo) pubblico. Perciò coprirsi il capo, anche se non è una legge scritta, diventa un ordine morale.
Volete una dimostrazione? L’imam del gruppo Tabligh ha una figlia. Non la obbliga a mettere il burqa finché è giovane, ma le vieta di vestire all’occidentale. Niente minigonne perché “mettono in imbarazzo il padre” e l’eventuale marito. Possiamo chiamarla emancipazione ed uguaglianza, questa?
Per carità, ognuno è libero di pensarla come vuole. E non tutte le interpretazioni di musulmani sono identiche. Inoltre, se una donna sceglie volontariamente il velo non le si può certo negare tale diritto (nei limiti della sicurezza pubblica). Ma qui occorre riflettere sul significato sociale della copertura islamica e della “svestizione” occidentale. E poi scegliere. Quale preferire, dunque? La libertà fatta di decolletè, seni in modalità “vedo non vedo” e bei bikini? Oppure il conformante burqa calato sul volto e lo sgargiante gioco di colori di un burkini da spiaggia?
Il lettore mi perdonerà se dico di preferire la banana senza buccia.
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