Il professor Antonio Di Leva, 42 anni di Caserta, è un neurochirurgo che ha deciso di costruirsi la sua carriera all’estero: tra Germania, Austria, Canada e ora Australia: “A volte ho rinunciato a posti prestigiosi per continuare a studiare, ricominciando ogni volta da zero”.
Da Ilfattoquotidiano.it
Una carriera da neuroscenziato costruita attraversando tre continenti, da Napoli al Canada, passando per Austria e Germania: il professor Antonio Di Ieva, neurochirurgo e docente universitario, oggi vive e lavora a Sydney, Australia. Ma non si definisce un cervello in fuga: “Fortunatamente non sono dovuto mai scappare da niente e da nessuno, ho intrapreso tutte le mie esperienze con l’idea fissa di germogliare, migliorare e crescere nel posto più adatto. Spesso rinunciando a ottime posizioni per continuare a studiare e a formarmi. Mi piace una frase che ho letto: noi non siamo alberi“.
Il suo percorso di studi è iniziato alla Seconda Università di Napoli, dov’era studente in Medicina e Chirurgia, alla sede di Caserta. Il terzo anno lo passa a Bonn, in Erasmus: “L’esperienza in Germania, inutile dirlo, è probabilmente stata la più formativa della mia vita”. Ha concluso gli studi alla Federico II preparando parte della tesi di laurea a Vienna, e subito dopo è stato per un periodo a Philadelphia, intenzionato a intraprendere lì la specializzazione: “Poi per diversi motivi – tra cui i costi eccessivi degli Usa – ho poi deciso di specializzarmi a Milano e Brescia“.
Mentre lavorava ha iniziato un dottorato a Vienna; due anni dopo, il salto in Canada, dove si è iper-specializzato in tumori cerebrali e della base cranica. Ricorda che sentiva parlare di Toronto come di una “provincia italiana senza la politica italiana” per il grande numero di connazionali. Dopo 3 anni un’offerta di lavoro come neurochirurgo accademico lo ha portato a Sydney, dove ora vive da quattro anni: “Qui opero, insegno ed ho fondato e dirigo un laboratorio di neurochirurgia computazionale e intelligenza artificiale, che sono riuscito ad aprire grazie a fondi di ricerca che ho vinto”, spiega orgoglioso. Ma la scelta di lasciare Vienna non è stata affatto scontata: “Ormai parlavo bene il tedesco, ero già professore e mi era stato offerto di dirigere il laboratorio di neuroanatomia per cui mi ero trasferito lì. Invece sono partito per un’ulteriore esperienza formativa a Toronto, ricominciando ancora una volta da zero”.
Spesso, racconta, viene contattato da chi sta pensando di partire: le persone gli chiedono informazioni generiche su affitti, stipendi, ore di lavoro, conoscenti. “Ormai sono abbastanza veloce a selezionare quelli che chiedono tanto ma non faranno nulla: tra amici italiani all’estero la definivamo ‘la selezione alla frontiera’”. Riflette sulla definizione di ‘cervelli in fuga’ e sulla rappresentazione che se ne fa sui giornali e nei dibattiti. “In effetti di persone che vanno all’estero per moda ce ne sono, medici che vanno a fare poco di più di quello che avrebbero fatto in Italia, per poi tornare fregiandosi nel curriculum dell’esperienza estera, come se fosse stata la loro consacrazione professionale. Ma – sottolinea – ci sono anche persone, e parecchie anche, che all’estero finalmente riescono a fare quello che non sarebbero mai riusciti a fare in Italia. Ho conosciuto molti giovani professori universitari che in Italia avrebbero fatto i portaborse a vita, ricercatori che lavorano per le proprie idee evitando il precariato, o l’eccessiva gerarchia universitaria e ospedaliera”. Secondo il professore i cervelli in fuga esistono, ma ci sono anche mani, idee e sogni in fuga. Ormai la definizione evoca un concetto troppo generico, stiracchiato di qua e di là per coprire tante situazioni diverse. E la scelta di parole non è delle più felici: “Il concetto di fuga evoca una colpa, un crimine, oppure una scappatoia da una situazione insostenibile o pericolosa. In verità per queste persone la fuga è nient’altro che una ricerca di cose non trovate, o di nuove esperienze formative”. Meglio la definizione inglese, brain drain, cervelli che ‘defluiscono’: “Il flusso dei cervelli, a prescindere dalle frontiere, è un fenomeno positivo sia per la società che per la scienza. Diventa un problema quando è unidirezionale: l’Italia, per essere in equilibrio, deve diventare attrattiva per i cervelli cosi come lo è per i turisti, come durante il Rinascimento“.
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